Dopo la guerra sociale diverse colonie vi dedussero i
Romani: quella di C. Gracco è ancor dubbio se fosse stata condotta ad
effetto, stimasi che la prima fu quella guidatavi da M. Bruto, padre dell'
uccisore di Cesare, nel 668 di Roma, la quale liberando Capua dalla dura
condizione di prefettura le arrecò sorte più tollerabile. Dopo breve tempo nel
672 di Roma altra ne sopravenne di veterani, dedottevi da L. Silla, dopo che
ebbe trionfato di Norbano presso il Tifata. Più nobile e copiosa colonia vi
dedusse Giulio Cesare nel 695 quattro anni dopo che indarno avea tentato
fondarvela il tribuno P. Rullo. E di tre altri accrescimenti la rafforzava
Ottavio, il I. dopo aver superato Bruto e Cassio a Filippi; il II. dopo aver
vinto Pompeo e Lepido; il III. dopo aver debellato M. Antonio ad Azio.
Quest' ultima volta la colonia ebbe nome di Augusta,
epiteto che con gli altri di Giulia Felice leggesi nel celebre marmo rinvenuto
nell' anfiteatro Campano.
Vuolsi che il perimetro dell' antica Capua fosse quasi sei
miglia, e che ricettasse nel suo seno non meno di 300,000 abitanti, bastande il
dire che poi semplici giuochi nudrì non meno di 40,000 gladiatori, come scrive
il principe della la-una eloquenza (Cic. ad Att. XIV, 7 ). Dagli avanzi delle
mura deducesi che essa non solo occupava lo spazio , ovo ora sorge S. Maria ed
il villaggio di S. Pietro, ma porzione del terreno dove ora sono i villaggi di
Savignano, Morcone, S. Andrea, le Curti, S. Prisco e la contrada detta Tirone.
Da sette grandi porte uscivano altrettante vie, le quali
menavano a diverse parti della Campania. 1°. La Casilinese rivolgevasi verso
Casilino, e per essa passava l'Appia. 2." La Fluviale riguardava il
Volturno (4) e conduceva al tempio di Diana onde dicevasi ancora Tifatina, e
per essa passava la via Gabinia. 3." La porta di Giove che menava al
tempio sii questa divinità posto sul Tifata, detta ancora Acquaria, perché era
di costo al famoso acquedotto che dal Taburno conduceva la famosa acqua Giutia.
4.a L' Albana, che mercé dell'Appia menava dritto alla città di Galazia. 5.°
L'Atellana, che menava ad Atella. 6." La Cumana a Cuma. 7." La
Liternina o Marittima che menava a Literno. Nella parte interna tre vie erano
celebratissime, la Seplasia, centro di delicatezza o di voluttà, 1' Albana e la
Cumana. Ebbe Capua, come Roma, il suo Campidoglio eretto forse dalla colonia
dedottavi da Cesare, ma consacrato da Tiberio, e che pare che si ergesse ove
oggidì è il quartiere della Torre. Presso questo Campidoglio fu il tempio di
Giove Tonante di tanta magnificenza che ne furono tratte 50 e più colonne per
abbellirne la chiesa di S. Vincenzo al Volturno nella nuova Capua. Di fronte al
Campidoglio fu un arco magnifico rovinato nel 1661. Diana Capitolina, Giove
Terminale, la Fortuna, Marte, Venere Felice, Cerere, Nettuno, Pallade, la
Vittoria, Bacco, Nemesi, Iside, Serapide, -Augusto, Castore e Polluce,
Mercurio, Lucina, ecc. v'ebbero tempii ed altari. Le monete di bronzo di Capua
ci presentano i tipi di Giove, Giunone, Pallade, Cerere, Apollo, Diana ed
Ercole; e quelle di argento il capo di Giove laureato e l'aquila che stringe
il fulmine, con la leggenda osca retrograda.
Una rarissima moneta porta sul dritto Ercole e sul rovescio
il suo figlio Telefo nudrito dalla cerva, che nelle genealogie mitiche è
detto padre di Tirreno (1). Nell'anfiteatro Campano, pochi anni or sono fu
scoperto una specie di calendario sacro, che ricorda in Capua ferie e
lustrazioni pagane l'anno 387 dell'era volgare. Rendevano splendida questa
nobilissima metropoli molti pubblici edificii, siccome le Curie, i Circhi, il
Foro, dei nobili e quello del popolo, il Teatro, l'Anfiteatro, le Terme etc.,
e fu tanto e tale il trasporto dei Capuani per ogni maniera di spettacoli, che
inventarono il modo di riparare i teatri dal calore del sole, dal vento e dalle
piogge. (Vai. Max. II. — Amm. Mar. XIV).
Ma il più grande e memorabile edifizio fu l'Anfiteatro, le
cui reliquie recano ancora meraviglia dopo tante rovine. I settantotto archi
che ancor si noverano, con le due porte maggiori danno una circonferenza di
1780 palmi, e la sua altezza agguaglia quasi quella dell' anfiteatro Flavio, di
Roma, che era alto 474 palmi. Credesi che fosse stato capace di 80,000
spettatori.
Chi visita quelle grandi rovine non può non ricordare i
generosi spiriti di Spartaco, la grandezza dei popolo campano, i crudeli
spettacoli del paganesimo, e la divina parola, che gridò pace e fraternità fra
gli uomini. I conti Longobardi e poscia i Saraceni mutarono l'anfiteatro in
fortezza; e dai più si opina che la voce Verolasci, Virolasci, Vrelasci, con la
quale si denomina oggidì dal volgo l' anfiteatro, derivi da Berolasì o
Berelasi, nome datogli verso il IX secolo in comune con la distrutta Capua, ed
originato per avventura dall’arabo Bir-al-as, che suona rocca rotonda, castello
munito (1).
Nella cronaca di Mauringo narrandosi della disfatta data da
Ludovico II. di Francia e da Landulfo di Capua ai Saraceni (dopo l'anno 868) è
detto: Landulph adiutus est eum contra
Agarenas et emulos suos, quos profligavit in Suessulu et
Verolasu. Il Mazzocchi opina che tal voce derivi dal tedesco, parlato dai
Longobardi, e che significa città vecchia.
Se queste cose 'rammentano taluni dei più nobili edifizii di
Capua, la tradizione e la storia hanno perpetuato le sue ricchezze ed i
lussureggianti costumi dei suoi abitatori, che ricordano una seconda Sibari.
Devastata dai Vandali nel 455, ritenne tuttavolta il primato fra le città della
regione; essendo stata sede del Consolare che la governava, fra'quali si ha
memoria di un Postumio Lampadio, lodato come salvatore della patria e
restauratore delle fontane, del Foro e delle vie della città. Incendiata e
distrutta nell' anno 840 da'Saraceni, che favorivano le partì di Radelchi
principe di Benevento, si spicciolò in più borghi, dei quali il più
considerevole, ch'era presso l'anfiteatro, si chiamò di Berolasi e poscia di
S. Maria dei Suri; dalla Chiesa e dal Borgo, che intorno vi crebbe, e che si
disse .così balla famiglia di tal nome, di cui è memoria nei marmi (2) e non
dal miracolo fatto dalla Vergine di guarire dalla lebbra con la leccatura dei
surici o sorci un re o imperatore, che si trovò di passaggio ad invocarla.
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