La pecora
Chi di
voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e
va in cerca di quella perduta, finché non la trova?
Nessuno, Signore, fidati.
Nessuno corre il rischio di lasciare le novantanove pecore per sbattersi e
faticare andando a cercare al ribelle o la svampita. Nessuno lo fa. Non la
società, che ormai ha smarrito la quasi totalità delle pecore, fabbricando
marginalità. A volte nemmeno la Chiesa, più preoccupata di salvare il salvabile
che di trovare atteggiamenti e linguaggi nuovi per dire Cristo agli smarriti.
Preferiamo le nostre certezze. Il danno minore. L’assenza del rischio.
Preferiamo non mettere in discussione le cose acquisite, anche nella fede.
Invece tu vai. Ti stanchi per cercare quella pecore, per cercare noi, per cercare
me.
E quando la trovi non sfoghi su di lei la stanchezza e la rabbia per una
giornata passata inutilmente a correre sulle colline. Non la bastoni, irritato,
coma avrei fatto io.
La prendi sulle spalle. Le eviti ulteriore stanchezza.
Una pecora, non un agnellino.
Un bel peso. Un’ulteriore fatica.
Così è Dio. Il Dio di Gesù, che continuamente cerca. Mi cerca, ovunque io
mi sia perso.
La
moneta
Ma certamente faremmo come la massaia distratta che ha perso una delle
dieci monete lasciatagli dal marito per fare la spesa grande. Sa bene, lei come
noi, il valore del denaro, la fatica nel guadagnarselo.
Allora cerca, come cercheremmo noi.
Ribalta casa finché non trova quel benedetto biglietto di carta moneta
scivolato dietro il divano.
E, lei come noi, sospira piena di sollievo.
Solo che, dopo, fa una cosa assurda.
Chiama le vicine, racconta la vicenda. Prepara un caffè e un dolce, poi
apre una bottiglia di liquore. Spende più della moneta ritrovata.
Perché, dice Gesù, Dio è così.
Esagerato. Sempre. Non ci ama col bilancino, mai.
I figli
Figli tristi, quelli della parabola del Padre miserciordioso, così simili a
noi. Che stravolgono e tradiscono il volto del Padre.
Lo annientano, lo umiliano.
Pensano che sia un despota da sfruttare, da cui fuggire, da obbedire per
averne un tornaconto.
Idioti.
La fame spinge in primo a rimpiangere le carrube di cui si nutrono i maiali
che pascola, come l’ultimo dei servi. Nessuno gliene dava.
A nessuno sta a cuore la sua morte. Solo al Padre.
La gelosia spinge il secondo ad accorgersi che non aveva bisogno di
elemosinare un capretto per far festa con gli amici. Tutto ciò che è del Padre
è giù suo.
Chissà se, alla fine capiranno chi è il Padre.
Chissà se lo capiremo.
Parabole
Le parabole ascoltate gettano una spallata definitiva alla nostra mediocre
visione di Dio per spalancare la nostra fede alla dimensione del cuore di Dio.
Convertirsi significa passare dalla nostra prospettiva a quella inaudita di Dio
e questo significa fare come Lui.
Noi diciamo: “Ti amo perché sei amabile, te lo meriti, perché sei buono”.
Dio dice: “Ti amo con ostinazione e senza scoraggiarmi perché so che il mio
amore ti renderà buono”.
C’è una bella differenza! In fondo in fondo costruiamo una vita di fede
orientata intorno ai nostri meriti. Nessuno si merita l’amore di Dio. Il suo
amore è assolutamente gratuito, libero, pieno.
Dio non ci ama perché siamo buoni, ma amandoci senza misura ci rende buoni,
aprendoci alla speranza e alla conversione.
L’esperienza del peccato diventa occasione per un incontro più duraturo e
autentico con questo Dio che ci perseguita con il suo amore.
Ben lontano dall’avere una visione poetica o approssimativa del peccato,
Luca sa che l’esperienza di sofferenza interiore che è il peccato, lo smarrimento,
la lontananza da Dio e da noi stessi, può diventare un incontro che salva, che
ci aiuta a ripartire con maggiore autenticità e coraggio.
La nostra fede non si fonda sulle nostre capacità, sulle nostre devozioni,
sui nostri sforzi, ma sull’ostinazione di Dio che ci cerca.
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