San Bellino di Padova
La data di nascita è ignota, l'ascendenza genealogica non del tutto sicura e di recente sottoposta a nuova indagine da A. Tilatti, che ha scartato la precedente attribuzione di Bellino alla famiglia dei Bertaldi, individuandone il padre in un non altrimenti identificato Audo. Prete almeno dal 1107, anno della sua prima menzione, Bellino è il primo tra i canonici destinatari di una donazione al capitolo della cattedrale di Padova nel 1108 e l'anno successivo riveste la carica di arciprete della stessa cattedrale. Fin dalla sua prima apparizione figura al fianco di Sinibaldo, il vescovo di orientamento filopapale contrapposto al candidato di obbedienza imperiale e costretto dalla violenza regia, cioè di Enrico V, ad abbandonare la sua sede.
Bellino seguì con tutta probabilità Sinibaldo nel suo esilio, ma nel 1115 risulta nuovamente a Padova, in una fase di componimento delle divisioni. Superato definitivamente lo scisma e ritornato Sinibaldo in sede, Bellino operò al vertice del capitolo cattedrale per essere poi eletto vescovo fra il 1126 e il 1128. La sua attività si svolse in continuità con quella del suo predecessore: Bellino confermò e in parte ampliò le concessioni di Sinibaldo al monastero veneziano di S. Cipriano, dipendente dall'abbazia di Polirone; si adoperò a favore di S. Croce di Campese, monastero assoggettato nel 1127 alla stessa abbazia di Polirone, alla quale nel 1124 Sinibaldo aveva sottoposto il monastero di Praglia; mantenne infine il legame affettuoso con la chiesa di S. Maria delle Carceri, che durante l'episcopato di Sinibaldo aveva adottato la vita comune e le istituzioni di S. Maria di Porto di Ravenna: Bellino beneficò la canonica, la sostenne presso il pontefice, invocandone la protezione, e come Sinibaldo fu annoverato tra i benefattori nel necrologio del monastero, ricordato quindi nelle preghiere della comunità.
I singoli interventi citati s'inserivano in un più ampio progetto di riordino della diocesi padovana sotto l'aspetto sia patrimoniale sia giurisdizionale, dopo le lotte e i disordini dei decenni precedenti. Alla povertà denunciata nel 1130 da Bellino («i beni del mio episcopato sono stati dilapidati per i contrasti fra Regnum e Sacerdotium») faceva eco Innocenzo II nel 1132, che si preoccupava di confermare al vescovo padovano tutte le chiese usurpate da laici e da monaci durante l'episcopato suo e del suo predecessore. Anche se non risulta un'opera parallela nei confronti dei monasteri, un preciso impegno di recupero di chiese e di porzioni di chiese private dalle mani di laici, in consonanza con i ripetuti canoni conciliari contemporanei, è attestato nel 1134 (diritti della famiglia da Montagnone sul monastero di S. Daniele), nel 1138 (cappella di Montegalda refutata dai nobili da Baone), nel 1146 (diritti dei signori da Caldonazzo sulla chiesa di Curtarolo). Tale azione si collegò alle vigili cure circa la tenuta delle strutture diocesane: gli atti di donazione previdero clausole a difesa sia dei diritti delle chiese parrocchiali sia dei diritti vescovili circa la consacrazione dei chierici e dell'olio santo, la presenza ai sinodi e la giustizia ecclesiastica. In data incerta Bellino intervenne in favore dei sacerdoti delle cappelle cittadine concedendo loro il quartese della città e del territorio, intervento che conforterebbe l'ipotesi secondo cui Bellino in qualche modo sostenne la nascita della «congregazione dei sacerdoti e dei chierici di Padova», l'associazione che riuniva il clero officiante le cappelle urbane, incaricato di nuovi compiti di cura d'anime.
Il favore per le istituzioni canonicali, la promozione di monasteri, canoniche e chiese, la vigilanza sulla stabilità delle gerarchie d'ufficio e di giurisdizione compongono l'immagine di un vescovo aperto alle nuove esperienze religiose, impegnato nell'attento governo della sua chiesa, interessato, anche a seguito delle vicende dello scisma, al corretto e disciplinato svolgimento della vita ecclesiastica: nella documentazione che lo riguarda, si parla di successori catholici, di funzioni parrocchiali da esercitare «secondo i canoni», di un'obbedienza, da parte dei suoi canonici, ecclesiastica e fidelis. Un vescovo ormai in stabile colloquio con la Sede apostolica e consapevole del ruolo di guida da essa assunto ed esercitato all'interno della cristianità, ad esempio attraverso la convocazione di sinodi generali, la cui eventualità era da Bellino esplicitamente contemplata. Non va però dimenticato il significato che l'episcopato di Bellino rivestì nella storia civile padovana: se, durante lo scisma, la compresenza e il contrasto fra due vescovi aveva visto emergere partiti che esprimevano orientamenti di politica soprattutto locale, con gli episcopati di Sinibaldo e di Bellino il dialogo con la società urbana e con le forze signorili del territorio si mantenne intenso, anche per la presenza giurisdizionale e patrimoniale che l'episcopato, seppur indebolito, conservava.
Bellino morì quasi certamente a Padova il 26 novembre del 1147, data ricostruibile attraverso il necrologio di S. Maria delle Carceri e dati documentari indiretti. Posteriore di più di un secolo è la vita di un san Bellino vescovo e martire attribuita al domenicano Bonagiunta, vescovo di Adria (12881304). Le vicende che portarono alla venerazione di un san Bellino nella diocesi di Adria non sono del tutto chiarite. Dall'esame condotto da A. Tilatti, le lezioni relative alla festa del santo risultano una mescolanza di elementi riconducibili a personaggi storici diversi e ricomposti in un disegno che rispecchia gli intenti dell'agiografo più che la realtà storica di Bellino. Secondo il testo agiografico, Bellino, già vescovo di una diocesi tedesca, fu nominato vescovo di Padova dal pontefice, preoccupato di sanare uno scisma apertosi nella sede vescovile a causa di indebite pressioni politiche. Zelatore e difensore delle libertà della sua chiesa, Bellino cadde ucciso nel ritorno da Roma, ove s'era recato per ottenere protezione e consiglio, nei pressi della chiesa di S. Giacomo di Fratta (in diocesi adriese). Sul luogo fiorirono subito i miracoli ma poi, in seguito a un'alluvione e al crollo della chiesa, il corpo santo fu sepolto dal fango e cadde nell'oblio. L' invendo fu opera di un uomo pio che, guidato da un sogno, giunse sul luogo recuperando l'arca marmorea, la quale, posta su di un carro, fu prodigiosamente guidata alla pieve di S. Martino di Variano da cui S. Giacomo dipendeva.
Il testo attribuito a Bonagiunta, ripreso anche nel lezionario della cattedrale di Padova, razionalizza un culto che, pur non avendo quasi nulla a che vedere con il Bellino storico (cui furono certamente estranei l'assassinio e il martirio), si mantenne e anzi si potenziò allorché, nel 1489, Bellino fu elevato a patrono della diocesi di Adria, diocesi che con quella di Padova vide la diffusione del culto. Il modello proposto dal testo tardoduecentesco era quello del martire per la libertas Ecclesiae e per l'obbedienza alla Chiesa di Roma, modello funzionale all'azione che, come vescovo, Bonagiunta andava conducendo nella diocesi, e probabilmente ispirato da una «ben determinata congiuntura storicopolitica: la predominanza padovana nel Polesine» (di qui l'adozione e la proposta di un santo padovano le cui vicende avevano fortissime analogie con quelle del contemporaneo vescovo padovano, Bernardo). Nella devozione popolare la venerazione per Bellino si legò al suo potere taumaturgico nei casi di rabbia canina, una virtus già celebrata, secondo il testo agiografico, dal vescovo adriese Rolando ai primi del Duecento e invocata a lungo nei secoli, come risulta dai registri parrocchiali (all'a. 1727), da ex voto e da stampe popolari di fine Ottocento. La chiesa di S. Martino di Variano, che poi insieme con la località mutò il suo titolo in S. Bellino, fu precoce meta di pellegrinaggio, come confermano la recente ricognizione del contenuto dell'arca e le monete in essa rinvenute.
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