Era il 15 marzo del 44 a.C. quando
Cesare pronunciò, prima di cadere, le sue ultime più famose parole: “Tu
quoque, Brute, fili mi”. Alle idi di marzo, in largo Argentina, dove
duemila anni fa si trovava la Curia di Pompeo, sede provvisoria del Senato
distrutto dopo un incendio, accadde uno degli omicidi più efferati della
storia. Nell’opera “De vita Caesarum”, Svetonio racconta l’episodio
dell’assassinio di Giulio Cesare, un evento tragico preceduto da numerosi
prodigi che, se capiti, forse avrebbero evitato l’efferato delitto.
Svetonio, Le vite dei dodici Cesari.
Vita di Giulio Cesare, capp. 81-82.
“Pochi mesi prima, i coloni condotti a
Capua in virtù della legge Giulia stavano demolendo antiche tombe per
costruirvi le loro case. Lavoravano con tanto ardore che, esplorando le tombe,
trovarono molti vasi di antica fattura. Nel sepolcro in cui si diceva fosse
sepolto Capi, il fondatore di Capua, rinvennero una tavoletta di bronzo che
recava una scritta in lingua e caratteri greci; il senso era questo: “Quando
saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morirà per mano di
consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri
dell’Italia.” Questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso
o inventato, è stato riferito da Cornelio Balbo, intimo amico di
Cesare. Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di
cavalli che aveva consacrato quando attraversò il Rubicone, e che lasciava
libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano
continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l’aruspice
Spurinna lo ammonì di “fare attenzione al pericolo che si sarebbe presentato non
oltre le idi di marzo”.
Il giorno prima delle idi un piccolo
uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, entrò volando nella curia di
Pompeo; subito volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo
raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso.
Nella notte che precedette il giorno
della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di
stringere la mano di Giove. La moglie Calpurnia sognò invece che crollava la
sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un
tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole.
In seguito a questi presagi, ma anche
per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in
casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato;
alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i
molti senatori che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì.
Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto
che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse
leggerlo più tardi.
Dopo aver fatto quindi molti sacrifici,
senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo
religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché
le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che
erano arrivate, ma non erano ancora passate.
Mentre prendeva posto a sedere, i
congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro
Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più
vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e
con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora
Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è
violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la
gola.
Cesare, afferrato il braccio di Casca,
lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra
ferita.
Quando si accorse che lo aggredivano da
tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e
con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più
decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta. Così fu trafitto
da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo
colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro
di lui: “Anche tu, figlio?”.
Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita,
mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che
pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.
Secondo quanto riferì il medico
Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva
ricevuto per seconda in pieno petto. I congiurati avrebbero voluto gettare il
corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi
atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del
comandante della cavalleria Lepido”.
Gaio Giulio Cesare, wikimedia Commons
Ma quali furono gli antefatti che
portarono a tale efferatezza? Cesare, dopo aver annientato le truppe di Pompeo
a Farsalo nel 48 a.C. e aver celebrato a Munda nel 45 a.C. l’ultimo di cinque
trionfi ottenuti contro popoli e re stranieri, era di fatto il nuovo padrone di
Roma. Era fermamente convinto, inoltre, che la res publica ormai
aveva definitivamente esaurito la sua funzione, (“la repubblica è un fantasma
senza corpo”) e che fosse necessario dare a Roma un tipo di ordinamento
monarchico, esautorando definitivamente il Senato dai suoi privilegi che da
troppo tempo avevano privato l’Urbe di un adeguato governo. Dal 49 al 44 a.C.
si fece eleggere console quattro volte e contemporaneamente si fece nominare
dittatore, fino a quando, nel 44, divenne dictatora vita. In quanto
patrizio, Cesare non poteva ricoprire il tribunato della plebe, ma si fece
assegnare ugualmente alcune delle prerogative tipiche della carica, come
l’inviolabilità e il diritto di veto nei confronti del senato e di altri
magistrati della res publica; era inoltre pontifex
maximus, pontefice massimo, ovvero ricopriva la massima carica
religiosa a Roma. Di fatto, Cesare aveva, a pieno titolo, i poteri di un
monarca.
Tra le importanti riforme che attuò,
portò il numero dei senatori da 600 a 900, immettendo un gran numero di suoi
seguaci provenienti da molte regioni dell’Impero e allargò di conseguenza la
base del ceto dirigente. Questo comportò l’abbassamento delle qualifiche
censitarie necessarie per l’ingresso nell’ordine equestre e uno svuotamento
dell’importanza delle magistrature; molti magistrati infatti erano nominati da
Cesare stesso e per periodi brevissimi. Da sempre si era schierato nella
fazione dei populares e coerente su questa scia fece approvare
provvedimenti in favore dei debitori, stabilendo il condono di un anno di
affitto per gli inquilini morosi. Le chiari proteste degli optimates furono
espresse qualche tempo dopo da Cicerone:
“Devono forse gli uomini vivere
gratis nelle proprietà d’altri? […] io ho comprato o costruito una casa, la
mantengo a mie spese, e tu dovresti godertela senza il mio consenso? […] Che
cos’altro sarebbe questa cancellazione dei debiti se non che tu acquisti un
terreno col mio denaro e che tu ti tieni il terreno, mentre io il denaro non ce
l’ho più?”
Cesare
procedeva dunque verso una riforma radicale dello Stato; gli fu concessa la
possibilità di portare in testa una corona d’alloro e di assumere in permanenza
il titolo di imperator (concesso solo ai generali nel giorno
del trionfo); una delibera del Senato stabilì inoltre la sua divinizzazione
dopo la morte e in suo onore il nome del mese Quintilis fu
cambiato in Iulius, “luglio”.
La somma dei poteri straordinari che
Cesare aveva acquisito non allarmarono soltanto i senatori tradizionalisti, ma
anche alcuni suoi seguaci che pensarono fosse sconveniente che Roma avesse un
re. Alle idi di marzo del 44 a.C., 15 marzo, una congiura guidata da Marco
Giunio Bruto e Gaio Crasso colpì Cesare che cadde trafitto dai pugnali dei
congiurati mentre stava per entrare in Senato.
«καὶ σύ,
τέκνον;» “Anche tu figlio?”
Dopo l’uccisione di Cesare, Augusto fece
murare la Curia e quel luogo divenne un locus sceleratus.